In memoriam

Quando ha imparato i versi di “In memoriam” di Tennyson, Gaunt era all’ultimo anno di scuola. Ricorda perfettamente la voce da baritono del suo migliore amico Sidney mentre li recitava, alto e sicuro, come sempre, sul terrazzo dell’accademia, in un pomeriggio plumbeo. È stata una bella giornata, quella, pensa distrattamente Gaunt, sdraiato su una brandina cigolante con la testa bendata e la mascella rigida. Come la bocca digrignata del soldato su cui è inciampato nella fuga per ripararsi nella trincea. Non riesce a togliersi dalla testa quel viso, e l’unica cosa che lo tiene ancorato alla realtà è la poesia di Tennyson e le lettere dell’amico Sidney, che gli ha inviato dall’Inghilterra, dandogli notizie sui compagni, sulle lezioni, sulle pagine che sta studiando. Gaunt darebbe l’anima per tornare a quei giorni, discutere di metrica e autori greci, invece di indossare la divisa, che pure ha scelto. All’accademia l’eco delle bombe e dei proiettili era pioggia, qui è tuono insondabile. Eppure c’è quella poesia. Eppure ci sono due braccia che lo sostengono, stringendolo forte, un corpo caldo a dividere lo spazio misero della brandina. L’alito di Sidney, accanto a Gaunt, lo stabilizza, lo rende consapevole del proprio respiro e del cuore che batte all’impazzata. D’altronde, la letteratura glielo ha insegnato: nella guerra, nella tragedia, c’è sempre anche l’amore.