(di Francesco De Filippo) FEDERICA MANZON, ALMA (FELTRINELLI; 266 PAG; 18 EURO) Se “Scrivere è sempre un regolamento di conti personale”, come lei stessa sostiene in una affilatissima frase, Federica Manzon la sua personale resa dei conti la gioca nell’ultimo libro, Alma.
Ambiziosa opera, Manzon squaderna l’intera Trieste e con essa lo strascico dell’Est che si porta dietro (e dentro), componendo un enorme affresco-mosaico composto in parte di tessere già disegnate in precedenti libri e in parte aggiungendovi tanti altri luoghi, emozioni, suggestioni, eventi. Invariato è invece lo spirito venato di una malinconia latente addensata oltre la barricata dei frequenti silenzi, dell’incomunicabilità, delle acredini ritenute e degli ardori abortiti. Insomma, quel modo di essere che appartiene più al carattere slavo che non al Nord Italia e che a Trieste – di cui Manzon è cittadina d’adozione – si impasta con l’animo mitteleuropeo.
Alma – nome della protagonista del romanzo – vuole essere tutto questo, nelle due direttrici diacronica e sincronica: l’eredità asburgica, il confine, la statuaria figura del Maresciallo Tito e la mattanza dei Balcani sull’asse temporale; i bordelli sul Carso, amori profondi e mai confessati, il Caffè San Marco, su quella sincronica. C’è perfino la rivoluzione basagliana, i cui protagonisti si riconoscono dalle definizioni e dai soli nomi; quella rivoluzione che segnò la città (e il Paese) da un punto di vista sociale e politico.
Manzon descrive un universo autonomo, bastevole a se stesso, con l’impermeabilità di un acquario, dove l’Ovest è un’area vaga, indefinita: quando non se ne può proprio fare a meno di chiamarlo in causa ci sono “la nazione” (Italia) e “la capitale” (Roma). Geografia, onomastica e toponomastica esistono soltanto al di qua. Un universo la cui cortina di ferro che l’attraversava e che scorreva longitudinalmente lungo il perimetro del Friuli Venezia Giulia, non è mai stata invalicabile. Quell’universo si estende fino a Sarajevo, Belgrado, e ancora a Srebrenica, a Mostar e i sessanta proiettili di mortaio che fecero crollare il ponte. E’ una dimensione caleidoscopica in cui la cittadinanza è un fattore burocratico, non di appartenenza perché qui lingue, costumi, sentimenti sono intrecciati in modo indistinguibile e Trieste ne è la perfetta sintesi. Come l’affascinante padre di Alma: un uomo orgogliosamente senza radici né passato, un po’ di là – nello staff di Tito – un po’ di qua – con la moglie, la figlia, un bambino in affido che ha salvato dal crollo della Jugoslavia, e la casetta sul Carso. Come è anche la madre, staccatasi dalla ricca famiglia a forte impronta austroungarica per amore dello sfuggente marito. E come in fin dei conti è anche lei, Alma, rientrata a Trieste soltanto il tempo di prendere l’eredità paterna e tornarsene nell’altrove.
Un libro che vuole essere maturo e lo è, a dispetto di ingenue cadute, con passi di profonda riflessione, pagine molto belle e numerose citazioni.