(di Laura Valentini) ANNA SEGRE ‘ONORA LA FIGLIA’ (INTERNO POESIA, PP 132, 15 EURO) – ‘Onora la figlia’, opera in versi di Anna Segre, sceglie la via del dialogo anche duro, scarno, a volte rabbioso con una madre di cui, è l’immediata confessione, chi scrive non si appresta a “soddisfare le aspettative”. Al contrario: “sarò me malgrado te, sarò quello che mi pare” scandisce l’autrice in prossimità della morte della madre e con l’urgenza di quello che dal titolo appare come un undicesimo comandamento. Serve rispetto anche nei confronti di una figlia; c’è un codice da capovolgere, uno scardinamento della gerarchia, la necessità irrevocabile di andare oltre il decalogo biblico.
‘Onora la figlia’ è un libro sull’infanzia, sulla patria potestà, sugli effetti delle minacce. Sulla condizione femminile, sulla prigionia e sul danno. In questi versi, scritti a ridosso della morte della madre, l’autrice compie un atto di verità. “Manca” scrive “il comandamento del rispetto” che si deve a una figlia, dell’onore che si deve alla figlia. Versi che parlano da figlia per dare voce a ciò che ha sempre taciuto, per liberarlo oltre il ruolo di figlia e incarnarlo in una nuova forma con parole attraverso cui Segre disinnesca l’ordigno del potere.
‘Onora la figlia’ è un’opera lacerata che non cerca consolazione, un gesto poetico che apre uno spazio nuovo nel discorso sul legame materno, sul femminile, sulla memoria. E non ci sono vittime da compatire né carnefici da condannare. Solo esseri umani. Segre scrive non per congedarsi: “scrivere diventa l’unico modo per fare esistere ciò che manca”, osserva Manuela Fraire nella prefazione. Quella che prende forma è una lingua spietatamente intima, che attraversa il lutto, la rabbia, la fedeltà, svelando la zona d’ombra del legame materno. E se c’è spazio per il giudizio (‘Mia madre è una gramigna, cresciuta lo stesso al bordo di una strada, nella polvere’) non c’è indulgenza né rivendicazione, ma la volontà di dar voce alla figlia, alla sua eredità muta, alla sua irriducibile domanda d’amore e di giustizia. “Non ci sono vittime da compatire né carnefici da condannare. Solo esseri umani”, scrive Cecilia Lavatore nella postfazione al libro della scrittrice che è medico e psicoterapeuta. Dall’irriducibilità della condizione di figlia (‘Mia madre è solo pane e ci devo vivere’) con la sua ultima opera Segre ritaglia un comandamento che mancava: un gesto poetico che apre uno spazio nuovo nel discorso sul legame materno, sul femminile, sulla memoria.