Vinse il National Book Award nel 2005 per la saggistica con L’anno del pensiero magico.
Da bambina copiava le storie di Hemingway per trovare il segreto che nessuno poteva rubare, ovvero la magia della sintesi fulminea e del linguaggio trasparente che ha cambiato la letteratura americana. Quando è cresciuta, ha dimostrato al mondo che il segreto le era stato rivelato. Il gigante con i baffi di Oak Park, Illinois, si era reincarnato nella minuta ragazza-bene di Sacramento, California. Joan Didion è morta il 23 dicembre 2021 a New York, pochi giorni dopo il suo 87esimo compleanno e dieci anni dopo l’uscita del suo ultimo libro “Blue Nights”, uno dei capolavori di terribile bellezza e infinito dolore della sua vecchiaia, soffriva da tempo del morbo di Parkinson (un bel documentario-lettera d’amore a lei dedicato dal nipote attore Griffin Dunne ce la mostrò su Netflix quattro anni fa senza fare sconti al declino fisico, sempre più sottile nel corpo e nella voce).
Come Hemingway, Didion ha preso la lingua inglese degli americani e l’ha elevata su un piano diverso, nel quale la chiarezza dello stile illumina ogni cosa: i personaggi, i dettagli, le idee dell’autore. Superando anche il maestro in materia di analisi politica, che a lui non interessava (troppo preso da caccia e pesca e dall’inseguimento della sua idea di mascolinità) e alla quale lei ha dedicato alcune delle sue pagine più strepitose, passando ai raggi X gli uomini di potere di Washington degli ultimi quarant’anni.
Didion è stata giornalista e narratrice fondendo le tecniche e le regole dei due mestieri proprio come Hemingway prima di lei, e applicando un senso dell’osservazione quieto e spietato. Leggendo Didion si prova la stessa sensazione che si prova, da miopi o da presbiti, infilando gli occhiali: tutto diventa improvvisamente, finalmente, nitido. La ragazza che sognava di fare la giornalista vinse un concorso di «Vogue» e dalla natìa California andò a New York a scrivere didascalie di moda (palestra fondamentale: Didion ci insegna, tra le tante cose, che per capire una donna non si può non considerare anche come si veste e come si trucca).
Una foto famosa — gli scrittori americani hanno chissà perché il dono della fotogenia: ottantenne, fu testimonial di Céline — la ritrae ragazza chic in giacca cerata inglese da caccia e foulard Hermès accerchiata dai fricchettoni della San Francisco della Summer of Love, l’estate dell’amore (e soprattutto dell’Lsd). Più avanti, eccola con la tunica fluente nella casa Malibu con la sua Stingray coupé. E nella bella cucina luminosa con la figlia adoratissima Quintana Roo e il marito-mentore John Gregory Dunne, bravo romanziere e critico sagace che molto la fece soffrire ma senza il quale, come vedremo, non poteva vivere.
Strutturalmente incapace di sentimentalismo e proprio per questo ancora più emozionante, come il cinema di Michelangelo Antonioni, Didion nel 1970 pubblicò un romanzo — Prendila così, tradotto in Italia da Bompiani e poi da Il Saggiatore — che ha lanciato, oltre alla sua, anche la carriera di una generazione di scrittori americani dopo di lei (il giovane Bret Easton Ellis la idolatrava, ricopiandone i testi come lei faceva con Hemingway), e la cui scena più famosa è quella, terrificante, di un aborto (allora ancora illegale).
Doveroso ricordare Didion come la creatrice di frasi indimenticabili e molto citate — «È facile vedere l’inizio delle cose, più difficile vederne la fine», «raccontiamo storie a noi stessi per vivere», «la vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita», «questa città che svanisce rapidamente nell’abisso tra la sua vita reale e le sue narrazioni preferite», riferendosi a New York — ma in lei lo stile lapidario e difficilissimo da tradurre (per fortuna in Italia abbiamo Vincenzo Mantovani e Delfina Vezzoli) è sempre lo strumento per raccontarci senza fronzoli la verità. I politici? Pupazzi, cinicissimi, spiazzati dagli eventi. A volte in buona fede, altre meno. La sua California? Rievocata senza nostalgie, con la bravura con la quale descrive le sue spaventose emicranie.
Gli articoli di Verso Betlemme e The White Album e Nel paese del Re pescatore (Il Saggiatore) prendono a prestito le tecniche della narrativa e i suoi romanzi come Miami sono prodigi di giornalismo. Lavorò, con John, anche per il cinema ma Hollywood, nella sua inevitabile volgarità, ne capiva a fatica la sottigliezza e non riuscì a tradurla davvero sullo schermo per commercializzarla: lei non se ne dolse.
Gli ultimi anni, quelli della vecchiaia, sono aperti e chiusi da due libri brevi e devastanti, nei quali la profondità assoluta dello sguardo didioniano si rivolge all’immagine dello specchio, l’autrice e la sua vita. Sono due racconti di perdite irrimediabili: L’anno del pensiero magico (Il Saggiatore) è quello della morte improvvisa di John, a cena, una sera come tante, lui che si accascia, lei all’ospedale (Didion viene descritta al medico come «un osso abbastanza duro»), e dopo la morte del marito la malattia della figlia Quintana, un calvario che la porterà alla morte in giovanissima età raccontato nel libro finale della carriera di Didion (le uscite successive furono raccolte e riedizioni), Blue nights (edito dal Saggiatore).
Adesso che non c’è più, adesso che la grande casa sulla Settantunesima est a pochi passi dal parco è vuota, è giusto ricordare Joan Didion con le ultime parole del suo ultimo libro: «So cos’è la fragilità, so cos’è la paura. La paura non è per ciò che è andato perso. Ciò che è andato perso è già murato in una parete. Ciò che è andato perso è già chiuso dietro porte sbarrate. La paura è per ciò che c’è ancora da perdere. Potreste dire che non vedete cosa ci sia ancora da perdere. Eppure non c’è giorno della sua vita in cui io non la veda».
L’anno del pensiero magico, d’ora in poi, sarà ogni anno nel quale crederemo di vedere uno scrittore simile a Joan Didion.