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Pubblicado da Collezionista di News in 27 Aprile 2025
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    (di Francesco De Filippo) (MARZIO G.MIAN, VOLGA BLUES (Gramma Feltrinelli; 314 pagg: 20 euro) Nonostante il tempio di San Nicola il Taumaturgo e la cattedrale della Trasfigurazione del Salvatore, alla sorgente del Volga, lì dove tutto ebbe inizio, il riferimento sociale, storico, politico e religioso, è Sant’Olga (890-969), principessa variaga della stirpe rjurikide (dal nome del capostipite Rjurik), tutti discendenti da vichinghi Rus’. Avevano capitale a Kiev e diedero il nome alla futura Rossija (Russia). Da questo presupposto e da questo luogo nasce (senza visto giornalistico nella Russia in guerra!) il viaggio di Marzio Mian scrittore e del fotografo Alessandro Cosmelli condensato in un libro, “Volga blues”.
        La principessa Olga con i suoi massacri causò la scomparsa dei drevljani (600 anni dopo la morte sarebbe stata santificata lo stesso) e uno stile di potere che caratterizzerà da Ivan il Terribile a Lenin, Stalin, Putin. Un tratto, i massacri, che Mian scoprirà ininterrotto nella storia e nella geografia, lungo i 3.500 chilometri del Volga. Alla ricerca della dusa, l’anima russa, da San Pietroburgo ad Astrakan. Mian e Cosmelli li percorrono in un van guidato da Vlad, senza patente adeguata e quasi alcolizzato e dalla sua compagna, Katja, cantante mancata, personalità borderline intenzionata a denunciare ai servizi segreti Fsb i due clienti italiani.
        Quella di Mian non è la Russia di Mosca o San Pietroburgo (Leningrado) ma quell’ impasto originale di sgomento davanti all’ immensità della Natura, propaganda politica, terrore della violenza dei regimi, orgoglio per un fumoso spirito russo, credenze religiose che sfiorano il paganesimo e inclinazione autodistruttiva. Impasto cementato dalla taiga, più in là dalla tundra, e dalle temperature insopportabili.
        Qui, del potere centrale, distante migliaia di chilometri, riecheggiano vaghi proclami, si subiscono le cicliche purghe oppure le scelte mastodontiche di stabilimenti siderurgici grandi come città, o città di ricerca nucleare come Dubna.
        Scelte degli anni staliniani che imposero il passaggio repentino dal vomere all’acciaio, all’atomo. Conseguenza furono e sono due opzioni: incrollabile fiducia o odio per l’uomo forte del regime. Oggi, ragazzi indossano t-shirt con il volto di Stalin: ribellione e nostalgia di un passato non conosciuto.
        Mosca e San Pietroburgo sono enclave isolate, ci si allontana di qualche chilometro e non si degrada in campagna, si piomba in una dimensione multiforme e sconosciuta, regno di calmucchi, ciuvasci, udmurti, tatari, tedeschi del Volga, baschiri. Mian si avventura in terre cariche di storia e di spettri, incontra bimbi sequestrati in Ucraina e in ‘russificazione’, intellettuali critici e depressi, imprenditori fai-da-te, energumeni della Wagner, sacerdoti scismatici. Terre dove si vive na grani, sull’orlo, al limite, perennemente. Non meraviglia la diffusa abitudine di zapoj, sbornia a oltranza.
        Tutto e il contrario di tutto: nell’immensità russa, nella piccola Ul’janovsk, sono nati Vladimir Il’ič Ul’janov, Lenin, e nello stesso quartiere, il suo nemico, Aleksandr Fëdorovič Kerenskij.
        Eppure, qui dove la vita umana sembra priva di valore, dove davanti alla spaventosa forza della Natura si è indifesi, tra Cristo e vari anticristi, nonostante una cappa di nichilismo soffochi le coscienze, un tratto accomuna tutti: la dusa. Quella fiamma che sconfisse svedesi, polacchi, francesi, nazisti. Oggi si accende di rancore per gli occidentali: europei, non americani. Mian, che ha scritto un libro che è una miniera e una scoperta, cita Puskin per descrivere narod, il popolo russo: “Obbediente alla suggestione del momento, indifferente e sordo alla verità effettiva, una bestia che si nutre di favole”.
        L’Orso russo.
       

    — Fonte: RSS di ANSA
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