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Henry Charles Bukowski muore il 9 marzo 1994 all’età di 73 anni, stroncato da una leucemia fulminante, a San Pedro, poco dopo aver completato il suo ultimo romanzo, Pulp. I funerali furono officiati da monaci buddisti.
La sua lapide recita: “Don’t Try” (Non provare), una frase che usa in una delle sue poesie, consigliando gli aspiranti scrittori e poeti riguardo l’ispirazione e la creatività. Bukowski spiega la frase in una lettera del 1963:
Qualcuno in uno di questi posti… mi chiese: “Cosa fai? Come scrivi, come crei?” Non lo fai, gli dissi. Non provi. È molto importante: non provare, né per le Cadillac, né per la creazione o per l’immortalità. Aspetti, e se non succede niente, aspetti ancora un po’. È come un insetto in cima al muro. Aspetti che venga verso di te. Quando si avvicina abbastanza, lo raggiungi, lo schiacci e lo uccidi. O se ti piace il suo aspetto ne fai un animale domestico.
Henry Charles Bukowski, detto Hank, nasce il 16 agosto 1920 in Germania, figlio di un militare americano e di una madre tedesca si presse la libertà di non assomigliare nessuno, nemmeno il tanto amato Hemingway.
Arriva negli Stati Uniti da bambino, quando il padre ha terminato il servizio militare. Non sono anni felici. Il padre è disoccupato e violento, la famiglia vive emarginata nella Los Angeles degli anni ’30, il giovanissimo Bukowski non ha amici, i compagni lo prendono in giro per il suo accento tedesco, la sua pelle è butterata dall’acne: inizia a bere all’età di tredici anni.
Scrittore di culto e di rottura che ha segnato la letteratura americana, e non solo, con il suo stile realistico definito «realismo sporco».
Più che sui romanzi, il culto si fondava sui racconti, e soprattutto sul legame poeticamente vitale tra la forma breve e la narrazione in prima persona. Avevamo l’impressione di ascoltare un amico, molto saggio e molto inguaiato, in proporzioni variabili. Il sesso e l’alcool facevano la loro parte, come accadeva per molte star del rock, ma sono elementi esteriori di una grandezza che, per durare nel tempo come ha fatto, doveva appartenere all’artista, e non al «personaggio».
Sporchi sono gli ambienti e i sentimenti che racconta, ispirati dalle atmosfere dei bassifondi che ha frequentato e dalla letteratura di autori come John Fante e Henry Miller: nei suoi quasi settanta libri, tra romanzi, racconti e poesie, lo stile è inconfondibile, duro, cinico e ironico come i suoi personaggi alcolisti e malati di sesso, marginali e asociali, tutto il contrario dei modelli del sogno americano postbellico. Un cantore dell’America bruciata e senza speranza in cui egli stesso si riconosceva. D’altronde lo stesso Bukowski lo sostenne in interviste divenute celebri:
«Quello che scrivo è al 95% vita vera, e solo al 5% fiction».
Nel 1944-45 inizia un decennio buio, che lo stesso scrittore definirà in seguito come «una sbronza lunga dieci anni»: ne uscirà a metà degli anni ’50 con il fisico già minato dall’alcol e dalla depravazione. Ma comincerà a raccontare quegli anni bui nelle sue storie. Impiegato all’ufficio postale per guadagnarsi di che vivere (e di che mantenere il vizio dell’alcol), nel 1955 Charles Bukowski ritorna a scrivere e soprattutto a pubblicare. Dopo varie vicende sentimentali la sua vena letteraria diviene feconda: scrive e pubblica poesie e vari racconti. Finché nel 1969 l’editore Black Sparrow gli offre un contratto a vita (per 100 dollari al mese) grazie al quale riesce a lasciare il lavoro alle poste e a pubblicare immediatamente il romanzo che lo renderà celebre, Post Office (uscito in Italia per SugarCo nel 1971).
Tra le sue opere più importanti e più conosciute, i romanzi Factotum (SugarCo, 1975), Panino al prosciutto (SugarCo, 1982), Hollywood (Feltrinelli, 1990) e l’ultimo, scritto in punto di morte, Pulp (in Italia uscito postumo nel 1995 per Feltrinelli).
Celeberrime e molto ampie le sue raccolte di racconti: tra le tante, Taccuino di un vecchio sporcaccione (Guanda 1979, poi Feltrinelli 1980 con il titolo Taccuino di un vecchio porco), Musica per organi caldi (Feltrinelli, 1984) e una serie di corti confluiti in Storie di ordinaria follia (Feltrinelli, 1975), che ha ispirato anche un film per la regia di Marco Ferreri nel 1981.