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Il 2 settembre 1840 nasce a Vizzini, in Sicilia, Giovanni Verga. E’ il maggiore esponente del verismo letterario, autore di opere come “I malavoglia” e “Rosso Malpelo“
Trascorre i primi anni in Sicilia, scrivendo assai presto tre romanzi storici, che risultano però poco significativi e alquanto influenzati dallo scrittore francese Alessandro Dumas. Nel ’58 si iscrive alla facoltà di giurisprudenza, ma presto l’abbandona per dedicarsi completamente alla letteratura. Tra il ’60 e il ’64, dopo aver prestato servizio nella Guardia Nazionale al tempo dell’impresa garibaldina in Sicilia (vi si dimise per insofferenza alla disciplina), si dedica al giornalismo politico-patriottico, dirigendo alcuni periodici che però ebbero vita breve. Politicamente è un monarchico unitario, avverso alle tendenze autonomistiche dei siciliani.
Fra il ’65 e il ’71, odiando a morte i siciliani, si trasferisce a Firenze, in quegli anni capitale d’Italia, dove ebbe i primi contatti letterari e dove pubblicò con successo due romanzi: Una peccatrice (1866) e Storia d’una capinera (1871). Nel primo si narra l’amore di una nobildonna con un giovane scrittore, il quale, dopo aver suscitato nell’amante una passione intensa e tormentosa, la trascura spingendola al suicidio. Nel secondo si narra la storia di una ragazza, costretta dalla matrigna a farsi novizia. Tornata per breve tempo a casa in seguito a un’epidemia di colera, la ragazza s’innamora del fidanzato della sorellastra. Ma la famiglia la obbliga a ritornare in convento e a prendere i voti definitivamente. La ragazza muore pazza.
Questi due romanzi sono il prodotto di una sensibilità tardo-romantica (l’amore passionale e travolgente che porta alla disperazione o alla morte), ma, soprattutto il secondo, presentano anche uno studio dell’ambiente ben documentato, la ricerca della verità e dell’efficacia sociale o pedagogica del loro contenuto. Il Verga mira qui a trasferire nei protagonisti dei romanzi i suoi stessi stati d’animo e sentimenti (di qui il loro valore autobiografico). Le avventure, benché non vissute ma immaginate, vengono descritte con lo scopo di criticare la falsità e l’immoralità della società borghese e aristocratica (specie quella elevata) contemporanea allo stesso scrittore. In particolare al Verga non piace la concezione borghese individualistica e raffinata che cerca nell’amore passionale un diversivo per sfuggire alla noia della vita quotidiana.
A Firenze conosce anche la diciottenne Giselda Fojanesi, con cui avrà una controversa relazione amorosa, anche dopo che lei, nel 1872, avrà sposato il poeta e accademico catanese Mario Rapisardi, il quale infatti la caccerà di casa.
Dal ’72 al ’93 Verga visse a Milano, dove fu in stretto contatto con gli ambienti letterari che facevano allora di Milano la città più viva d’Italia (si pensi p.es. al fenomeno della Scapigliatura, che contestava su posizioni bohémienne il falso pudore borghese e l’aristocratico rigore della lingua letteraria tradizionale). La prefazione di Eva (1873) è già anti-borghese: il romanzo verrà criticato per la sua immoralità a sfondo sessuale. Voleva a tutti i costi emergere come romanziere a livello nazionale. Tuttavia appariva come uno scrittore anti-letterario, con poco senso critico, con una grammatica approssimativa, con scarsi legami con le grandi tradizioni letterarie italiane o straniere. D’altra parte non aveva un retroterra di studi regolari, non si era laureato e leggeva gli scrittori contemporanei senza particolare costrutto.
Nel 1881 conosce la contessa Dina Castellazzi di Sordevolo, poco più che ventenne, già sposata: con lei avrà una relazione per tutta la durata della sua vita.
A Milano Verga stringe amicizia con Luigi Capuana, che è il teorico del Verismo italiano.
Nel ’74 che, con la pubblicazione di Nedda, avviene il salto qualitativo. La novella è diversa per argomento e per stile. Narra la vicenda di una raccoglitrice di olive siciliana che, rimasta orfana, lavora a giornata presso varie fattorie per mantenere la madre ammalata, che poi morirà . Dal suo amore per un giovane povero nasce una bambina, ma il ragazzo, prima ancora di sposarla, muore di malaria. Nedda viene respinta da tutti e non trovando più lavoro vede morire di stenti la propria bambina. Il racconto è significativo perché il Verga polemizza non più con le contraddizioni interne alla vita borghese, ma con quelle che questa vita produce esternamente, nelle classi più umili. Non gli interessa più l’alta società milanese e fiorentina, ma la Sicilia dei poveri.
Nell’80 il Verga compone una raccolta di sette novelle che intitola Vita dei campi; nell’83 pubblica Novelle rusticane e progetta un ciclo di cinque romanzi, I vinti, di cui però scrive solo i primi due: I Malavoglia nell’81 e Mastro don Gesualdo nell’88, che sono i suoi capolavori, riconosciuti a livello europeo. Tutte queste opere hanno come sfondo la Sicilia intorno a Catania, e come protagonisti uomini e donne delle classi subalterne: contadini, pastori, pescatori, artigiani, braccianti. Dura è la critica nei confronti dell’aristocrazia nobiliare.
Nel progetto originario, I vinti dovevano rappresentare gli sconfitti nella lotta per il progresso, in cinque fasi diverse: I Malavoglia sono la storia di una famiglia di pescatori che esce sconfitta dal suo tentativo di conquistarsi migliori condizioni di vita; Mastro don Gesualdo è la sconfitta di un povero muratore che, divenuto ricco, vuole ottenere una promozione sociale sposando una nobildonna decaduta, che però non lo ama, né lo ama la figlia, che gli rinfaccia la sua origine umile. Mastro don Gesualdo morirà di cancro, abbandonato da tutti, con il patrimonio intaccato dal genero. I “galantuomini” del paese, invidiosi e preoccupati della sua fortuna, gli erano sempre rimasti ostili. Gli altri tre romanzi non scritti dovevano narrare la sconfitta dei sentimenti negli alti ambienti sociali, la sconfitta delle ambizioni politiche tese alla conquista del potere, la sconfitta dell’artista che mira alla gloria.
In questi romanzi, che pur possono sembrare molto pessimisti, vi sono degli aspetti positivi: