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Imre Kertész è nato da una famiglia del ceto medio ebraico ungherese. Deportato all’età di 15 anni, riuscì a spacciarsi per un ragazzo più grande, scampando così all’immediata esecuzione.
Sopravvisse all’Olocausto (termine che non gli piacque mai, come del resto la parola “shoah”, così come odiò per tutta la vita la parola “dissidente”), ad Auschwitz perse la famiglia, e l’esperienza del lager, con la dimensione di sopravvissuto, furono indubbiamente i due aspetti che più influenzarono la sua scrittura
Kertész, reduce dei campi di sterminio nazisti, ha descritto la tremenda esperienza in Essere senza destino il suo più famoso romanzo: si tratta del racconto dell’esperienza di un quindicenne ungherese che passa attraverso gli orrori di ad Auschwitz, Buchenwald e Zeitz. Dallo stesso libro è anche stato tratto un film, del 2005, dal titolo: Senza destino.
Traduttore di Freud, Nietzsche, Canetti, Wittgeinstein e altri, ha scritto opere teatrali per finanziare la propria carriera di scrittore indipendente. I suoi libri tornano sempre sull’avvenimento che ha segnato profondamente la sua vita: la detenzione a Auschwitz. Per Kertész, Auschwitz non è un’eccezione come un corpo estraneo alla storia normale del mondo occidentale, ma piuttosto l’illustrazione dell’ultima verità sul degrado dell’uomo nella vita moderna.
Kertesz iniziò a scrivere nel 1948, all’alba del nuovo regime comunista, del quale sono testimonianze il romanzo surreale e picaresco Fiasco e il Diario dalla galera, vivendo lunghi decenni di emarginazione e oscurità carceraria, da cui non si sentì liberato dalla nuova democrazia ungherese (condusse una vita piuttosto nascosta, fino alla sua morte nel 2016, lo stesso anno in cui morì anche il più giovane Peter Eszterhazy, voce altrettanto provocatoria, enigmatica e affascinante della letteratura contemporanea ungherese, nonché discendente, diseredato dal regime, della maggiore famiglia dell’Impero, che non ci sorprende avesse dissipato fortune per allevare talenti come Liszt).
La diffusione in Italia dell’opera di Kertesz, come quella di diversi altri autori ungheresi, si deve in particolar modo ad un altro insigne sopravvissuto ungherese, naturalizzato italiano, Giorgio Pressburger, anch’egli scomparso.
Kertesz amò scrivere nella sua lingua, di cui si sentì cultore e prigioniero, allo stesso tempo, sognando di fuggire dalla sua “patria-prigione”, senza mai farlo, non si sentì più libero dopo la caduta del regime, sentì l’inquietudine del suo secolo e del nuovo millennio, che raccontò nei suoi diari, con sguardo profetico, usando una lingua che lo rendeva, a suo dire, esotico e inconoscibile al pubblico mondiale, l’unico che lo poteva amare, mentre, come ogni vero profeta, poco era considerato nel suo paese natale, la cui opinione pubblica fu generalmente ostile al suo Nobel. La sua lingua, lingua dei suoi carnefici, ma anche dei suoi modelli poetici, lo turbò sempre.
Kertesz non solo si spinse a definire l’università di Cluj-Napoca “reliquia dell’era nazista”, come altre università, per la presenza di storici negazionisti e giustificazionisti, non solo, contro corrente, fu sempre un tenace difensore della causa dello Stato di Israele, arrivando ad accusare di nazismo e antisemitismo persino intellettuali ebrei ungheresi, ma arrivò ad accusare l’intero mondo post-bellico di aver esteso e globalizzato Auschwitz, attraverso lo svuotamento di significato dell’uomo, la spersonalizzazione totale e la mercificazione di tutto, in cui tutti gli uomini sono diventati “pezzi”, illusi da numerose armi di distrazione di massa, dalle apparenze di benessere, pienezza e moltiplicazione delle possibilità, mentre la narrazione degli stermini di massa, dei lager e del nazismo è stata sapientemente confinata, stereotipata e scientificamente snocciolata, musealizzata, reificandola in qualcosa di fuori da noi e rinchiudendola a chiave nel contenitore della “Memoria”, illudendo che tutto si sia risolto lì e che poi siano arrivati i “buoni” a salvarci dagli “alieni”, in una lettura semplicistica che può commuovere anche addirittura chi sarebbe il nuovo carnefice, l’Olocausto ridotto a problema di coscienza, se non a canone estetico, per Kertesz.
Solo Benigni, per Kertesz, aveva saputo raccontare il non raccontabile, celandolo dietro l’assurdità di una bugia buona raccontata a un bambino, un inganno, che come tale fa intuire l’incommensurabile assurdità che nasconde.
Tra gli altri suoi romanzi Fiasco, dell’88, considerato il secondo volume di una trilogia che inizia con Essere senza destino e prosegue con Kaddish per il bambino non nato (1990), The pathfinder (1977) e The English flag (1991). Il suo ultimo libro è A szamuzott nyelv (La lingua espatriata) del 2001.
Imre Kertész lo scrittore ungherese è morto a Budapest il 31 marzo 2016 – dove nacque nel 1929 – all’età di 86 anni. E’ stato uno degli scrittori ungheresi più importanti del XX secolo, Premio Nobel per la Letteratura nel 2002.