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Nella primavera del 1993, qualche mese prima di morire, Fellini riceve il suo quinto Oscar, alla carriera. Federico Fellini si spegne a Roma per un infarto il 31 ottobre 1993 all’età di 73 anni.
Era nato il 20 gennaio 1920 a Rimini. Il padre proviene da Gambettola e fa il rappresentante di commercio di generi alimentari, mentre la madre è una semplice casalinga. Il giovane Federico frequenta il liceo classico della città ma lo studio non fa molto per lui. Comincia allora a procurarsi i primi piccoli guadagni come caricaturista: il gestore del cinema Fulgor, infatti, gli commissiona ritratti di attori celebri da esporre come richiamo. Nell’estate del 1937 Fellini fonda, in società con il pittore Demos Bonini, la bottega “Febo”, dove i due eseguono caricature di villeggianti.
Federico Fellini si trasferisce a Roma nel gennaio 1939, con la scusa di iscriversi a giurisprudenza. Fin dai primi tempi, frequenta il mondo dell’avanspettacolo e della radio, dove conosce, fra gli altri, Aldo Fabrizi, Erminio Macario e Marcello Marchesi, e comincia a scrivere copioni e gag. Nel 1943 incontra alla radio Giulietta Masina che sta interpretando il personaggio di Pallina, ideato dallo stesso Fellini. Nell’ottobre di quell’anno i due si sposano. Per il cinema ha già iniziato a lavorare fin dal 1939, come “gagman” (oltre a scrive battute per alcuni film girati da Macario).
Negli anni della guerra collabora alle sceneggiature di una serie di titoli di buona qualità, fra i quali “Avanti c’è posto” e “Campo de’ fiori” di Mario Bonnard e “Chi l’ha visto?” di Goffredo Alessandrini, mentre subito dopo è fra i protagonisti del neorealismo, sceneggiando alcune delle opere più importanti di quella scuola cinematografica: con Rossellini, ad esempio, scrive i capolavori “Roma città aperta” e “Paisà”, con Germi “In nome della legge”, “Il cammino della speranza” e “La città si difende”; con Lattuada “Il delitto di Giovanni Episcopo”, “Senza pietà” e “Il mulino del Po”. E sempre in collaborazione con Lattuada esordisce alla regia all’inizio degli anni cinquanta: “Luci del varietà” (1951), rivela già l’ispirazione autobiografica e l’interesse per certi ambienti come quello dell’avanspettacolo.
Nel 1952 Fellini dirige il suo primo film da solo, “Lo sceicco bianco” interpretato da un giovanissimo Alberto Sordi che caratterizza un meschino divo dei fotoromanzi. L’anno dopo filma il grande successo de I vitelloni (1953), affresco generazionale su un gruppo di giovani che vivono in provincia, non vogliono diventare uomini e sognano la fuga. I primi film di Fellini sono atipici, si possono inserire nel neorealismo solo facendo delle forzature, pure se il regista è un ideologo del neorealismo, autore di soggetti, sceneggiature dialettali (Campo de’ fiori) e collaboratore di Rossellini.
Un altro lavoro importante è La strada (1954), favola commovente interpretata da Giulietta Masina, umile e ingenua donna innamorata che cerca di rendere migliore il rozzo Zampanò insieme a un assurdo personaggio chiamato Il Matto. I protagonisti sono tre attori girovaghi come Gelsomina (il sentimento e l’ingenua dolcezza), Zampanò (la forza bruta, la violenza, la bestialità) e Il Matto (la follia che diventa saggezza). Gelsomina vuole cambiare Zampanò e farlo diventare un uomo capace di provare sentimenti. La fantasia di Gelsomina incontra la follia del Matto che le fa capire come deve agire, ma l’unione dei due elementi fa scaturire la tragedia. Zampanò uccide Il Matto con un atto bestiale compiuto davanti a Gelsomina che impazzisce, subito dopo scappa via e abbandona la donna al suo destino. Passano gli anni, Zampanò viene a sapere che Gelsomina è morta e subito si verifica un cambiamento impensabile. La bestia si mette a piangere in riva al mare in compagnia della sua solitudine e comprende di aver perduto l’unica persona importante della sua vita. Anthony Quinn presta il suo volto truce per la caratterizzazione del forzuto Zampanò, Nino Rota compone una strabiliante colonna sonora, Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano collaborano alla sceneggiatura. Fellini realizza un’opera poetica che vince l’Oscar come miglior film straniero e il Leone d’Argento a Venezia. Il bidone (1955) racconta le imprese di un gruppo di truffatori, ma soprattutto di Augusto che vorrebbe cambiare vita ma non ci riesce, alla fine cade in un giro peggiore e non scampa alla propria sorte. Il film contiene tutti i temi autobiografici cari a Fellini: i vitelloni, la provincia, la strada, il fatalismo, tanta introspezione dolorosa e una religiosità di fondo. Amore in città (1953) è un film sperimentale a episodi, scritto da Cesare Zavattini, nel quale Fellini si segnala per il surreale Agenzia matrimoniale che racconta la storia di una donna che sposa un licantropo.
Le notti di Cabiria (1957) è la storia di una prostituta ingenua e dal cuore d’oro (Giulietta Masina) che pensa di poter cambiare vita sposando uno sconosciuto. Vince il secondo Oscar per il miglior film straniero e la Palma d’Oro a Cannes, anche per le mirabili interpretazioni di Giulietta Masina e Amedeo Nazzari. Fellini costruisce un film ironico e tragico ambientato nelle borgate romane, aiutato da Brunello Rondi e Pier Paolo Pasolini per i dialoghi, una sorta di apologo sulla grazia e sulla redenzione, ma soprattutto sulla durezza della vita. Il capolavoro registico sta nell’aver saputo mettere la maschera ingenua e clownesca di Giulietta Masina a confronto con le brutture e le nefandezze della vita. Fino a questo film possiamo dire che Federico Fellini è influenzato da echi di neorealismo, anche se porta avanti una poetica personale legata alla caduta delle illusioni.
Con La dolce vita (1959), Palma d’oro a Cannes e spartiacque della produzione felliniana, si acuisce l’interesse per un cinema non legato alle tradizionali strutture narrative. Alla sua uscita il film suscita scandalo, soprattutto negli ambienti vicini al Vaticano: gli si rimprovera, assieme ad una certa disinvoltura nel presentare situazioni erotiche, di raccontare senza reticenze la caduta dei valori della società contemporanea.
Nel 1963 esce “8½“, forse il momento più alto dell’arte felliniana. Vincitore dell’Oscar per il miglior film straniero e per i costumi (Piero Gherardi), è la storia di un regista che racconta, in modo sincero e sentito, le sue crisi di uomo e di autore. L’universo onirico introdotto in “8½” ritorna in forma esplicita in tutti i film fino alla fine degli anni sessanta: in “Giulietta degli spiriti” (1965), ad esempio, è tradotto al femminile e tenta di far da riferimento alle ossessioni e ai desideri di una donna tradita.
Con il successivo “Toby Dammit”, episodio di “Tre passi nel delirio” (1968), trasfigura una novella di Edgar Allan Poe, “Non scommettere la testa con il diavolo”, asservendola ad un ulteriore approfondimento sulle angosce e sulle oppressioni dell’esistenza contemporanea. In “Fellini-Satyricon” (1969), invece, l’impianto onirico è trasferito alla Roma imperiale del periodo della decadenza. È una metafora del presente, in cui spesso prevale il piacere goliardico della beffa accompagnato da un interesse per le nuove idee dei giovani contemporanei.
Conclusi con lo special televisivo Block-notes di un regista gli anni sessanta, il decennio successivo si apre con una serie di film in cui il passato riminese torna alla ribalta con sempre maggior forza. “Amarcord” (1973), in particolare, segna il ritorno alla Rimini dell’adolescenza, degli anni del liceo (gli anni trenta). I protagonisti sono la città stessa con i suoi personaggi grotteschi. La critica e il pubblico lo acclamano con il quarto Oscar.
A questo film gioioso e visionario si susseguono “Il Casanova” (1976), “Prova d’orchestra” (1979), “La città delle donne” (1980) “E la nave va” e “Ginger e Fred” (1985). L’ultimo film è “La voce della Luna” (1990), tratto da “Il poema dei lunatici” di Ermanno Cavazzoni. Federico Fellini torna in questo modo con i suoi pazzi nella campagna per ascoltare le sue voci, i suoi bisbigli, lontano dal clamore della città. Il film rispecchia in pieno questi dati: da un lato, abbiamo allora la sgradevolezza delle immagini dei baracconi che quotidianamente vengono montati e smontati, dall’altro il calore e la poesia delle sequenze del cimitero, dei pozzi, della pioggia, della campagna di notte.