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Nel 1842 norì a Parigi Stendhal, lo scrittore francese aveva 59 anni. E’ stato uno dei più grandi scrittori francesi dell’Ottocento, appartenente alla prima generazione romantica e alla corrente letteraria del realismo, di cui Honoré de Balzac fu l’altro massimo esponente, l’unico ad apprezzare Stendhal già in vita, mentre solo i posteri lo avrebbero compreso pienamente. Viene considerato per i suoi capolavori Il Rosso e il Nero e La Certosa di Parma, una tra le figure più rilevanti per il genere del romanzo nel XIX secolo, al pari di Victor Hugo, Gustave Flaubert, Émile Zola e, appunto, Balzac.
Stendhal, pseudonimo di Henri Beyle (nato a Grenoble il 23 gennaio 1783), è uno dei più importanti scrittori francesi di sempre. Nato da una ricca famiglia borghese, a soli sette anni venne colpito dal lutto della madre, donna che amava un modo viscerale. I rapporti con il padre (avvocato al Parlamento), viceversa, furono sempre pessimi, essendo quest’ultimo un esempio preclare di uomo bigotto e conservatore.
Sedicenne, si recò a Parigi con l’intenzione di iscriversi all’Ecole polytechnique. Vi rinunciò subito e, dopo aver lavorato alcuni mesi al ministero della guerra grazie all’appoggio del cugino Daru, nel 1800 raggiunse l’armata napoleonica in Italia, che molto presto riconobbe come sua patria d’elezione.
Sottotenente di cavalleria, poi aiutante di campo del generale Michaud, dal 1806 al 1814 fece parte dell’amministrazione imperiale, con funzioni sia civili sia militari che lo obbligarono a spostarsi dall’Italia all’Austria, dalla Germania alla Russia. Caduto Napoleone, si ritirò in Italia dove conobbe il suo primo amore (Angiola Pietragrua) e dove rimase sette anni, prevalentemente a Milano, interessandosi di musica e pittura. Deluso nel suo amore per Matilde Dembowski (conosciuta nel 1818) e sospettato di carbonarismo (La Carboneria è stata una società segreta rivoluzionaria italiana, nacque nel Regno di Napoli durante i primi anni del XIX secolo su valori patriottici e liberali.), dalle autorità austriache, tornò a Parigi (è il 1821). Per sopperire alle spese di una vita mondana superiore alle sue risorse economiche, collaborò ad alcune riviste inglesi, come ad esempio il “Journal de Paris”, con articoli di critica d’arte e musicale; sollecitò anche, invano, un impiego governativo.
Dopo la rivoluzione del 1830 e l’avvento di Luigi Filippo, ottenne la nomina di console a Trieste, ma, a causa dell’opposizione del governo austriaco, fu destinato a Civitavecchia. Il lavoro consolare gli lasciò molto tempo libero, che Stendahl impiegò, oltre che a scrivere, in viaggi e in lunghi soggiorni in Francia. Chiesto nel 1841 un congedo per ragioni di salute, tornò a Parigi e qui, un anno dopo, mori improvvisamente a causa di un attacco apoplettico. Fu sepolto nel cimitero di Montmartre; il suo epitaffio, da lui voluto in italiano, recita: “Arrigo Beyle, Milanese“. Lo scrittore amò la città di Milano e il nostro intero paese. A lui è dovuta quella particolare emozione, immensa e capace di estraniare dalla realtà, nota come sindrome di Stendhal. Proprio mentre visitava l’Italia espresse infatti questa sensazione di smarrimento, capace di riempire il cuore di bellezza, provata da chi si trova al cospetto di grandi opere d’arte, quelle così straordinarie davanti alle quali non riusciamo quasi a comprendere che esistano davvero, che i geni che le hanno realizzate le abbiano viste e toccate. Stendhal nel suo viaggio in Italia provò questa sensazione dopo la visita della Basilica di Santa Croce a Firenze, luogo di sepoltura del genio di Michelangelo Buonarroti che ispirò anche i versi immortali di Vittorio Alfieri e Ugo Foscolo.
“Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere”.
Stendhal