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Il 23 maggio 1992, Giovanni Falcone e la moglie Francesca, di ritorno da Roma, atterrano a Palermo con un jet del Sisde, un aereo dei servizi segreti partito dall’aeroporto romano di Ciampino alle ore 16,40. Tre auto blindate li aspettano. È la scorta di Giovanni, la squadra che ha il compito di sorvegliarlo dopo il fallito attentato del 1989 dell’Addaura.
Dopo aver imboccato l’autostrada che porta a Palermo, all’altezza dello svincolo di Capaci, una terrificante esplosione disintegra il corteo di auto e uccide Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
Giovanni Falcone nasce a Palermo il 18 maggio del 1939. Il padre, Arturo, era direttore del Laboratorio chimico provinciale. La madre, Luisa Bentivegna era casalinga. Terzo figlio dopo due sorelle, Anna e Maria, amava lo sport.
Cresce alla Kalsa, l’antico quartiere arabo nel cuore di Palermo, dove si intrecciavano destini diversi e dove era normale ritrovarsi a giocare a pallone col figlio del capomafia. A cinque anni comincia le elementari al Convitto nazionale. Ma è nell’ambiente familiare che assorbe i valori che lo guidano per tutta vita: la madre gli parla spesso dello zio bersagliere caduto sul Carso e il padre dell’altro zio, capitano in aviazione, morto durante un combattimento. Esempi di sacrificio e attaccamento al dovere che hanno ispirato il magistrato per la vita.
Dirà lui stesso:
“Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l’essenza della dignità umana”.
La morte di Giovanni Falcone rappresenta paradossalmente l’inizio della fine per Cosa nostra. Scossa dal tritolo di Capaci, Palermo si risveglia, scende in piazza e grida forte il suo no alla mafia.
Il 19 luglio del 1992, a 57 giorni dall’attentato, la mafia torna ad alzare il tiro e uccide Paolo Borsellino, collega e amico di una vita di Falcone, e la sua scorta.
Lo Stato decide di fare sul serio nella lotta alle cosche.
Tutti i più grandi latitanti, tranne il boss Matteo Messina Denaro, sono in prigione e l’azione della magistratura e delle forze dell’ordine non si è mai fermata.
Nella società è certamente cresciuta e si è consolidata una coscienza antimafiosa. Un risorgimento civile che, però, deve essere tenuto vivo. Nella guerra allo Stato la mafia è pronta ad approfittare di ogni indecisione. Per questo è fondamentale l’impegno delle istituzioni e, soprattutto, la vigilanza della società.
Spetta a tutti noi mantenere alto l’esempio lasciato da Giovanni Falcone e portare avanti la lezione di legalità e di amore per lo Stato che il magistrato ci ha lasciato.