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Mohandas Karamchand Gandhi nacque a Porbandar, nell’allora Raj britannico (attualmente parte dello stato indiano del Gujarat), il 2 ottobre 1869.
Nei primi anni di scuola, Gandhi si dimostra uno studente nella media, molto timido e impacciato, avido lettore e poco propenso alle attività fisiche. Nel 1882, all’età di 13 anni, Gandhi si sposa, con un matrimonio combinato secondo la tradizione indù, con Kastürbā Gāndhi, anch’ella di soli 13 anni, figlia del ricco uomo d’affari Gokuladas Makharji, di Porbandar.
Gandhi in seguito condannerà più volte “la crudele usanza dei matrimoni infantili“. Il primo figlio della coppia morì dopo pochi giorni, in seguito ne ebbero altri quattro, tutti maschi.
Nel 1886, all’età di diciotto anni, l’anno dopo la tragica morte del padre, parte per studiare da avvocato presso lo University College di Londra. Considerando l’impossibilità di rispettare i precetti induisti in Inghilterra, la sua casta si oppone alla partenza. Gandhi parte nonostante le discordie e per questo viene dichiarato paria, ovvero “fuori casta” dal capo della sua stessa comunità.
Nella capitale britannica, Gandhi si adattò alle abitudini inglesi, vestendosi e cercando di vivere come un vero gentleman. Qui ebbe l’occasione di incontrare la teosofa Helena Blavatsky, appena fuggita dall’India dove era stata accusata di frode. Della lettura del libro della Blavatsky, The Key to Theosophy (La chiave alla teosofia) Gandhi scrisse che: « […] aveva stimolato in me il desiderio di leggere libri sull’induismo e tolta la nozione curata dai missionari per cui l’induismo era pieno di superstizione». La teosofia rimase in lui ben impressa, tanto che il giorno stesso della sua morte comparirà sulla sua pubblicazione settimanale, Harijan un suo articolo dove egli scrisse: “Sono arrivato alla conclusione che la Teosofia sia l’induismo in teoria, e l’induismo sia la Teosofia in pratica.” Fu membro associato della Società teosofica.
Diventato avvocato, torna in India, ma ad attenderlo a casa ci sono delle brutte notizie. Il consiglio della sua casta lo ha bandito perché ritiene che la vita condotta in Europa lo abbia sicuramente portato sulla strada della promiscuità.
Si trasferisce in Sudafrica (1893) con in mano una valigia e l’incarico di consulente legale per una ditta indiana. Ma durante un viaggio in treno all’interno del Paese il capotreno gli intima di lasciare lo scompartimento di prima classe e spostarsi in quello di terza, dove viaggiava la gente di colore. Il giovane ed educato Mohandas, mostra prima il biglietto di prima classe e poi il suo tesserino di avvocato. Non serve, alla stazione di Maritzburg viene letteralmente espulso dal treno.
Generalmente è questo l’episodio chiave che porterà Gandhi ad approfondire la questione della segregazione razziale in Sudafrica e cominciare la sua attività politica contro il dispotismo delle autorità britanniche e l’apartheid.
È inutile, pensa, rispondere alla violenza con altra violenza. Gli inglesi hanno potere, armi e manganelli. Gli indiani devono invece usare la forza della propria dignità e della giustizia. Ecco perché comincia a predicare il verbo della teoria del Satyagraha, il cui significato letterale sarebbe «insistenza per la verità», ma verrà generalmente interpretato come «resistenza passiva». Si tratta di un rivoluzionario metodo di lotta politica, che consiste nel rifiuto di ogni atto che possa ledere fisicamente il nemico.
L’antico principio di origine induista e buddhista dell’ahimsa, che in sanscrito significa «non nuocere», ora applicato alla resistenza politica, avrà un peso notevole nella storia del successo del movimento indipendentistico indiano. La non-violenza di Gandhi non è sottomissione alla volontà di chi detiene il potere, ma la «ribellione della propria anima contro la volontà del tiranno». Questo apparente segno di debolezza, in realtà cela una forza esplosiva che poi si estende a collettive forme di non collaborazione e di boicottaggio che nel corso degli anni successivi cominceranno a far scricchiolare l’enorme struttura dell’impero britannico.
Gandhi abbandona il Sudafrica dopo ventun anni di lotte lasciandosi alle spalle un Paese dove, grazie alle sue battaglie, sono state attuate importanti riforme a favore dei lavoratori indiani, eliminate parte delle vecchie leggi discriminatorie, riconosciuti ai nuovi immigrati parità dei diritti e convalidati i matrimoni religiosi.
Anche per questo motivo, la popolazione lo elegge Mahatma, un titolo onorifico che deriva dal sanscrito e significa «Grande Anima». Nonostante Gandhi fosse restio ad accettare questo riconoscimento, perché riteneva non ci fossero differenze tra grandi e piccole anime, il ricordo dei suoi anni in Sudafrica rimarranno per sempre scolpiti nella sua memoria.
Nel 1915, mentre imperversa la Grande Guerra, Gandhi torna in India dove già da tempo si accendono ovunque focolai di ribellione contro l’arroganza e la violenza del dominio britannico. A inasprire ancora di più i toni è la nuova legislazione agraria, che prevede il sequestro delle terre ai contadini in caso di scarso raccolto. In questo periodo, Gandhi compie un lungo viaggio attraverso le diverse regioni dell’India al fine di prendere coscienza delle condizioni di vita degli indiani che lui aveva tanto difeso all’estero. Anche qui, si accorge ben presto, il tacco britannico schiaccia i diritti degli indiani.
Il Mahatma diventa così il capo politico e morale del movimento d’indipendenza nonché il leader del Partito del Congresso, battendosi anima e corpo per l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Proprio come in Sudafrica, anche in India Gandhi elabora alcune strategie di boicottaggio per impedire ai britannici di sfruttare materialmente la sua nazione. Esorta così gli indiani a un ritorno a una vita agreste primitiva, rurale, lontana dalle modernità occidentali.
Dunque la tessitura a mano del cotone diventa il simbolo della disobbedienza civile. La campagna politica di boicottaggio di Gandhi si estende in tutto il Paese: giudici, maestri, e funzionari pubblici cominciano a dimettersi, le scuole inglesi abbandonate, i prodotti britannici invenduti. Anche a Londra si accorgono che l’India è diventata praticamente ingovernabile.
Nel marzo 1930 Gandhi lancia una nuova campagna contro la legge britannica del monopolio sul sale, anche la stampa internazionale se ne interessa. Gli indiani protestavano per il fatto di non poter vendere il loro sale sui mercati internazionali, che invece erano sfruttati dai Britannici. Per questo motivo Gandhi, in un plateale atto di disobbedienza civile, si mette alla testa di una marcia che durerà 24 giorni coprendo a piedi una distanza di 200 miglia fino al raggiungimento delle saline, presidiate dalla polizia inglese. In segno di protesta il Mahatma raccoglie un pugno di sale e, subito dopo di lui, tutti ripetono il suo gesto. Dopodiché migliaia di indiani si fermano pacificamente davanti all’esercito che, nonostante l’ordine di sparare sulla folla, depone le armi.
La “marcia del sale” si concluderà con l’arresto di più di 60.000 persone, tra cui Gandhi e sua moglie Kasturba Makanji, condannato a sei anni, e moltissimi membri del Congresso. In totale, in tutta la sua vita Gandhi sconterà 2.338 giorni di carcere, senza mai aver commesso un atto di violenza.
Nell’agosto del 1942 Gandhi rivolge il suo ultimo appello al governo britannico per l’indipendenza dell’India con il celebre discorso tenuto a Bombay. Con le celebri parole «Quit India, lasciate l’India», nel quale esortava gli indiani a lottare per la libertà o a morire nel tentativo, assurge a una figura di uomo politico come santo, il leader di una rivoluzione come atto collettivo di disobbedienza passiva. In tal modo coglie un successo che travalica ogni più viva speranza.
Il 15 agosto 1947, infatti, l’India conquista la propria indipendenza. Ma a quale costo? Il processo d’indipendenza inizia con uno dei traumi più profondi del secolo scorso. Dai territori liberati dal giogo della corona britannica nascono due stati autonomi, pensati male e disegnati peggio. Un’India centrale «per gli indù» e un Pakistan «per i musulmani» diviso in due (quello Orientale, nel 1971, avrebbe combattuto per un’ulteriore indipendenza, diventando Bangladesh). Mesi prima e dopo la cosiddetta «Partition», le violenze tra la comunità musulmana e quella indù lasciano sul campo quasi tre milioni di morti e almeno quindici milioni di sfollati.
Il 30 gennaio 1948, un estremista indù di nome Vinayak Nathuram Godse, uccide Gandhi con tre colpi di pistola mentre si reca in giardino per la preghiera delle 5 p.m. Godse ritiene Gandhi responsabile di aver ceduto alle richieste di autonomia del governo pakistano e dei gruppi musulmani. Il killer viene subito catturato, processato e condannato a morte, nonostante l’opposizione dei sostenitori di Gandhi che, come il loro leader spirituale, erano contrari alla violenza e a questa forma di giustizia sommaria.
Il 6 febbraio del 1948 due milioni di indiani partecipano al funerale di Gandhi. Le ceneri – secondo la sua volontà – vengono disperse nei più importanti fiumi del mondo (Gange, Nilo, Tamigi, Volga).