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Nato con il nome di Thomas Kennerly Wolfe Jr., era l’icona del dandy conservatore. Vestiva sempre di bianco, con completi elegantissimi un po’ old fashion. Wolfe era diventato famoso soprattutto per aver inchiodato la sinistra americana, ma non solo, all’espressione radical-chic, la caricatura di un mondo che perora cause radicali mentre beve champagne.
Tutto nasce con un articolo nel giugno del 1970, un reportage scritto per il New York Magazine dove Wolfe descriveva una serata organizzata nel gennaio di quello stesso anno da compositore Leonard Bernstein nel suo lussuoso attico di Park Avenue per raccogliere fondi a sostegno dell’organizzazione Black Panther.
Nel 1987, diciassette anni dopo, Wolfe pubblicherà “Il falò delle vanità”, un romanzo di denuncia dell’edonismo imperante nella New York degli anni Ottanta. Sarà un enorme successo, arrivato dopo anni di intensa attività giornalistica e vari saggi.
Wolfe è stato uno dei maggiori esponenti del New Journalism, un giornalismo narrato, che usava espedienti narrativi arrivando a rivaleggiare con la letteratura. Era un eclettico, un creativo e anche nel giornalismo voleva portare la sua vena creativa. Inventava neologismi, si divertiva a castigare. È sua anche l’espressione “The ‘Me’ Decade” con la quale schedava gli anni Settanta come epoca egocentrica e individualista. Tra gli altri titoli “L’Acid test al rinfresko elettriko” (Feltrinelli) e “La bestia umana“ (Mondadori).
L’occhio satirico e fustigatore gli faceva riassumere in poche battute lo spirito di un’epoca. Non è detto che avesse ragione, era un conservatore irriverente, ma pur sempre un conservatore. Un signore bizzarro che amava spettegolare come si fa nei salotti. Gli anni Settanta erano appunto il “Il Decennio dell’io” ma pure quelli aperti dal Magical Mystery Tour di Ken Kesey lanciato in un viaggio acido insieme a Neal Cassady attraverso gli Stati Uniti. Anche Electric Kool-Aid Acid Test è un libro nato da un reportage in stile “new journalism”. L’articolo era uscito nel 1968 ed era una descrizione esilarante di un tour pazzo su un autobus sgargiante in cui viaggiavano uno degli esponenti principali della Beat Generation (Cassady) e l’autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo (Kesey insieme al gruppo di artisti Merry Pranksters). Su quel pullman naturalmente c’era anche il giornalista Wolfe che prendeva appunti. Di nuovo il dipinto malizioso e affettuoso di un’epoca, in cui i festini a base di Lsd e le manifestazioni contro la guerra in Vietnam convivevano allegramente. Parole d’ordine della tribù hippy: eccitarsi e sperimentare.
A Wolfe l’estetica contemporanea non piaceva, non lo nascondeva. Contro l’architettura dei nostri giorni aveva scritto il pamphlet “Maledetti architetti”. In un romanzo fluviale come “Io sono Charlotte Simmons” non mostrava molta simpatia per il look sdrucito dei ragazzi dei college. E in La bestia umana stigmatizzava le abitudini sessuali e linguistiche delle nuove generazioni con l’etichetta “rococò marxists”.
L’ultima sua stilettata malefica l’aveva riservata ai linguisti, provocando un dibattito globale che deve averlo molto divertito. “Il regno della parola”, pubblicato da Giunti, Wolfe si scaglia contro la concezione evoluzionistica e darwiniana del linguaggio sostenuta da Noam Chomsky. Le strutture del linguaggio non sono affatto innate, dice, ma il linguaggio è una creazione degli uomini per distinguersi dalle altre specie.
Wolfe in fondo era un dandy della Virginia che si divertiva ad osservare i suoi simili senza rinunciare ai suoi candidi vestiti sartoriali, al bastone e al cappello. Studiando con saggi e romanzi, e con snobismo reazionario che esaltava i fautori del “politicamente scorretto”, la trasformazione dell’America (e dell’Occidente).
È morto all’età di 87 anni il 14 maggio del 2018, a Manhattan, nella città che amava e dove viveva dagli anni Sessanta.