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Giorgos Seferis, uno dei più grandi poeti dei tempi moderni, nato a Smirne (Turchia) il 13 marzo 1900 e morto ad Atene il 20 settembre 1971. Poeta, saggista e diplomatico greco, premio Nobel per la letteratura nel 1963.
Studiò Giurisprudenza a Parigi dove seguì il padre, noto giurista e letterato. È il 1922 quando con la “catastrofe dell’Asia Minore” quando viene distrutta la città di Smirne e le comunità greche, presenti ininterrottamente dall’XI secolo a.C. svanisce ogni sogno di potenza ellenica. Quel disastro incise profondamente nell’animo del giovane, che in seguito avrebbe parlato nella sua poesia di popoli e civiltà in esilio.
Intraprese la carriera diplomatica (1926), che concluse nel 1962 come ambasciatore a Londra. Le peregrinazioni impostegli dal servizio, incluse quelle al seguito del governo greco dopo l’invasione nazista, radicarono nel suo animo il sentimento dell’esilio.
A Londra come diplomatico, entra in contatto con la poesia di Thomas Stearns Eliot e con autori francesi che, tramite le sue traduzioni, lo influenzano nella sua produzione poetica.
Seferis ha ricevuto numerosi riconoscimenti e premi, tra cui lauree ad honorem di dottorato dalle università di Cambridge (1960), Oxford (1964), Salonicco (1964) e Princeton (1965).
La poesia di Giorgos Seferis parla attraverso i simboli: le pietre, le statue e le voci lontane sono i cardini della poetica dell’autore di Smirne, insieme, ovviamente, anche al tema dell’esilio e dell’agognato ritorno in Patria, strettamente legato a quell’evento traumatico capitatogli in gioventù.
Argonauti
E un’anima
se si vuole conoscere
in un’anima
rimiri:
lo straniero, il nemico, lo vedemmo allo specchio.
Erano bravi ragazzi i compagni, non gridavano
né di stanchezza né di sete né di gelo,
erano come gli alberi e le onde
che ricevono vento e pioggia
ricevono notte e sole
senza mutare in mezzo a mutamenti.
Erano bravi ragazzi, interi giorni
sudavano sul remo, gli occhi bassi,
respirando in cadenza
e il sangue imporporava una docile pelle.
Cantarono una volta, gli occhi bassi,
quando doppiammo l’isola scabra dei fichi d’India
a ponente, di là da quel Capo dei cani uggiolanti.
Se si vuole conoscere – dicevano –
miri in un’anima – dicevano –
e battevano i remi l’oro del mare nel crepuscolo.
Passammo capi molti molte isole il mare
che mette ad altro mare, gabbiani, foche.
Ululati di donne sventurate
piangevano i figli perduti,
altre come frenetiche cercavano Alessandro
Magno, glorie colate a picco in fondo all’Asia.
Attraccammo
a rive colme d’aromi notturni
e gorgheggi d’uccelli, e un’acqua che lasciava nelle mani
la memoria di gran felicità.
Non finivano, i viaggi.
Si fecero le anime loro una cosa sola con remi e scalmi
con la grave figura della prora,
col solco del timone, con l’acqua che frangeva
gli specchiati sembianti.
I compagni finirono, a turno,
con gli occhi bassi. I loro remi additano
il posto dove dormono, sul lido.
Non li ricorda più nessuno. È giusto.
Ghiorgos Seferis
Da “Leggenda”, 1935; traduzione italiana di Filippo Maria Pontani