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Scrittore russo, nato a Berdičev il 29 novembre (12 dicembre) 1905, morto a Mosca il 14 settembre 1964. Figlio di un chimico, G. compì studi fisico-matematici all’università di Mosca, e dal 1932 lavorò come ingegnere chimico nel bacino minerario del Donbass.
Alla fine degli Anni Cinquanta, mentre gli intellettuali snob piagnucolano la morte del Romanzo a Milano e New York, un gigante russo, solo, poverissimo, malato, senza salario e editore, stende il capolavoro della letteratura del XX secolo, disperando di vederlo mai stampato. La vita e il destino di Vasilij Semënovic Grossman, autore del romanzo monumentale e leggendario “Vita e destino” (Adelphi), sarebbero da soli trama struggente e simbolica, ma il suo lavoro titanico, tra persecuzione sovietica e solitudine, testimonia del coraggio morale di un artista.
Alla vita dei minatori è dedicato il romanzo breve del suo esordio, Gljukauf (1934). Stabilitosi a Mosca, Grossman si dedicò interamente alla letteratura. Sono di questi anni i racconti: “Nella città di Berdičev” (1934), su un episodio della guerra civile; “Quattro giorni“, “Compagno Fedor“, “La cuoca“, in cui Grossman descrive con sobrio realismo il coraggio del popolo all’epoca della lotta clandestina contro lo zarismo e durante la guerra civile, e un romanzo in quattro volumi, Stepan Kol’čugin (1937-40), il cui protagonista è seguito nel suo sviluppo da giovane operaio di un villaggio di minatori a bolscevico rivoluzionario.
Corrispondente dal fronte del giornale Krasnaja zvezda, Grossman ottenne grande popolarità con il romanzo breve “Il popolo è immortale” (1942), primo grande affresco della guerra quale atto di eroismo di un intero popolo, raccontato liricamente. Da questo momento la riflessione sulla guerra e sul suo significato acquista un ruolo centrale nell’opera di Vasilij Grossman: a esclusione di una pièce, “Se dobbiamo credere ai pitagorici“, scritta prima della guerra e pubblicata nel 1946, le sue opere hanno come nodo centrale la battaglia di Stalingrado.
Dagli schizzi del ciclo Stalingrad (1943) si passa a epopee di sempre maggior respiro. Si tratta di riflessioni dolenti, oneste, preoccupate: già “Per una giusta causa“, concepito come prima parte di una dilogia e pubblicato nel 1952 sulla rivista Novyj Mir, dopo un’accoglienza calorosissima da parte della critica e soprattutto del pubblico, fu sottoposto nel 1953 a duri attacchi: gli eroi del romanzo non sono rappresentativi, ci sono più ebrei che russi, il ruolo del partito non è sottolineato abbastanza. La morte di Stalin impedisce che Grossman paghi un prezzo troppo alto per queste accuse: i detrattori si scusano, il romanzo è pubblicato in volume.
La sua crisi, morale e filosofica, si approfondì, esprimendosi nella seconda parte della dilogia, “Vita e destino“ (1984), portata a termine nel 1960 e consegnata alla redazione della rivista Znamja; dopo un anno di silenzio il romanzo fu ”arrestato” dal KGB: Grossman, cui stranamente non si tolse lo status di autore classico sovietico, non sopravvisse al dolore, si ammalò e morì dopo aver scritto ancora qualche breve racconto e “Salve!“, appunti relativi a un soggiorno di due mesi in Armenia pubblicati postumi a Erevan (1965; edizione integrale in Znamja, novembre 1988). Alla sua morte si trovò tra le sue carte un romanzo incompiuto, “Tutto scorre” (1971), iniziato nel 1955, in cui il ritorno del protagonista da un lager siberiano offre lo spunto a riflessioni che, portando alle estreme conseguenze l’analisi intrapresa nella dilogia, giungono per la prima volta a mettere in discussione la figura stessa di Lenin. Dopo aver circolato nel samizdat, Tutto scorre fu pubblicato a Francoforte nel 1970; in quanto a Vita e destino, copie del manoscritto confiscato giunsero fortunosamente in Occidente, e il romanzo, uscito a Losanna nel 1980, è stato subito tradotto in molte lingue.
La prosa di Grossman è limpida e distesa: ricorrendo a tecniche quasi cinematografiche egli ”monta” un romanzo dall’impianto classico, ricco di personaggi le cui storie s’intrecciano alla Storia, da Stalingrado ai lager siberiani, dai campi di concentramento nazisti alla provincia dello sfollamento. Ne risulta il quadro di un 20° secolo deformato dal tumore del totalitarismo, di un mondo di schiavi pronti a sterminare popoli interi in nome dell’idea, di nazione o di classe.
Pubblicati entrambi sulla rivista Oktjabr’ (Vita e destino, 1-4, 1988; Tutto scorre, 6, 1989), i romanzi hanno dato vita ad accese discussioni, ben attuali in un momento di generale riflessione sulla storia patria. Ma G. non accusa e non giudica: il suo ideale è quello di una bontà umile, una pietas verso tutte le creature che superi la razza, la fede, la classe e veda nell’uomo solo un uomo.