«Gli scopi dei due inferni non erano gli stessi», scrisse. «Il primo era un massacro fra uguali; non si basava su un primato razziale, non divideva l’umanità in superuomini e in sottouomini: il secondo si fondava su un’ideologia impregnata di razzismo». Nei gulag la morte era «un sottoprodotto», nei campi di sterminio lo scopo. I campi nazisti, scrive Primo Levi, «non erano una imitazione “asiatica”, erano bene europee, il gas veniva prodotto da illustri fabbriche chimiche tedesche; ed a fabbriche tedesche andavano i capelli delle donne massacrate; e alle banche tedesche l’oro dei denti estratti dai cadaveri. Tutto questo è specificamente tedesco, e nessun tedesco lo dovrebbe dimenticare».
Nato da una famiglia ebraica, Primo Levi ne apprese felicemente, da bambino, le tradizioni e il linguaggio. Da adulto, però, fu la storia a rinfacciargli le sue origini: dapprima sotto i colpi delle leggi persecutorie imposte dal regime fascista nel 1938 e, successivamente, quando si ritrovò deportato nel Lager nazista di Auschwitz fra il 1944 e il 1945.
Al ritorno in Italia dopo la guerra, egli approfondì lo studio delle proprie radici ebraico-piemontesi, cui dedicò fra l’altro il primo racconto – intitolato Argon – della raccolta Il sistema periodico. I suoi interessi si estesero poi anche alla cultura yiddish, che aveva imparato a conoscere nel periodo della deportazione, e alla realtà di Israele e dell’ebraismo contemporaneo.
Per Levi, oltre che un ambito costante di riflessione, la cultura ebraica, filtrata attraverso la tradizione italiana e la concreta esperienza di un intellettuale piemontese, laico e di formazione scientifica, ha rappresentato una matrice essenziale di tutta la sua opera.
174517 fu il numero tatuato sull’avambraccio sinistro di Primo Levi nel febbraio del 1944, al suo ingresso nel campo di sterminio nazista di Auschwitz. La detenzione durò poi per undici mesi fino alla liberazione, avvenuta il 27 gennaio dell’anno successivo a opera dell’esercito russo.
Di quell’esperienza e della realtà del Lager lo scrittore torinese ha testimoniato subito dopo la guerra nel suo primo libro Se questo è un uomo. Ma di essa ha anche fatto il centro dei propri pensieri e del proprio impegno di testimone diretto, in particolare nel rapporto con i giovani, per tutto il corso della sua vita; fino alla pubblicazione de I sommersi e i salvati, sintesi di uno studio e di una riflessione quarantennali.
Il racconto della Shoah assume in Levi tratti di inconfondibile originalità. Nello stesso tempo rappresenta un banco di prova essenziale per le sue qualità di scrittore, di pensatore e di uomo.
«Il rapporto che lega un uomo alla sua professione è simile a quello che lo lega al suo paese; è altrettanto complesso, spesso ambivalente, ed in generale viene compreso appieno solo quando si spezza: con l’esilio o l’emigrazione nel caso del paese d’origine, con il pensionamento nel caso del mestiere» (P. Levi, Ex-chimico, in Opere complete, vol. I, p. 810).
Vincitore del Premio Strega nel 1979 con “La Chiave a stella”