La cancel culture colpisce di nuovo. In alcune università inglesi sono stati messi al bando dei libri considerati dannosi e offensivi per gli studenti: tra questi ci sarebbero anche delle opere di Shakespeare.
L’inchiesta del The Times, pubblicata in prima pagina in data mercoledì 10 agosto 2022 con il titolo “Universities black list “harmful” literature” (Le università mettono in lista nera la letteratura “dannosa”), mette per iscritto una realtà sempre più preoccupante: il numero dei titoli messi al bando dalle università sta crescendo vertiginosamente.
Tuttavia, l’operazione non è un’ondata censoria, bensì una risposta opportuna ai nuovi “bisogni degli studenti e della società”. Si chiama cancel culture ed è una forma rafforzata di revisionismo in nome del cosiddetto “politicamente corretto”.
Tra i testi messi al bando troviamo anche dei mostri sacri della letteratura mondiale: William Shakespeare, Virginia Woolf, Charles Dickens, Jane Austen e Charlotte Brontë.
Secondo questa visione Sogno di una notte di mezza estate è un’opera classista; così come Oliver Twist descrive abusi su minori; tacciata di razzismo anche Virginia Woolf poiché usa troppe volte la parola “negro” nei suoi testi e descrive in un passo la pelle di una persona di colore “nera come quella di una scimmia”.
Nella black-list troviamo anche l’opera teatrale La signorina Giulia di August Strindberg, recitata nei teatri di tutto il mondo, ma bandita dalle università perché parla di suicidio.
Stando all’inchiesta compiuta da The Times due università, Essex e Sussex, hanno ammesso pubblicamente di aver depennato alcuni testi dalle letture accademiche. Altre dieci università, appartenenti al prestigioso Russell Group, tra cui Glasgow e Warwick, hanno invece deciso di inserire certe opere tra le letture opzionali per tutelare il “benessere degli studenti”.
Nessuno vuole dunque infrangere il delicato equilibrio psicofisico degli studenti universitari che, da parte loro, non sembrano affatto così fragili e delicati ed esprimono tutto il loro disappunto in merito alla faccenda.
In alcune manifestazioni studentesche si parla infatti di “limitazione alla libertà di pensiero” e persino di restrizioni “insidiose”. Alcuni tra gli studenti in procinto di laurearsi hanno affermato di aver deciso semplicemente di “stare al gioco” e quindi di allinearsi alle letture prestabilite per prendere buoni voti all’esame finale.
Ma davvero crediamo che degli studenti universitari non possiedano gli strumenti intellettuali e lo spirito critico necessario per comprendere e riattualizzare un’opera di Shakespeare?
Il ministro degli esteri inglese Liz Truss ha commentato la faccenda in questo modo:
L’università non dovrebbe praticare un’attività di controllo sugli studenti. Una buona educazione dovrebbe essere sempre sostenuta da un dialogo aperto e spontaneo. La vita reale non è mai accompagnata da un foglietto d’avvertenza sui contenuti. Non possiamo proteggere le persone da certe idee difficili da accettare per tutto il corso della loro esistenza.
Anche il ministro dell’istruzione James Cleverly ha espresso il proprio disappunto ribadendo che la tendenza a nascondere e occultare certi avvenimenti storici rischia di rendere più difficile la comprensione dei tanti progressi che sono in seguito avvenuti. Secondo Cleverly gli atenei britannici hanno l’obbligo di mostrare agli studenti il mondo esattamente com’è e non come “vorrebbero che fosse”.
L’espressione “cancel culture”, attorno alla quale da anni ruota un acceso e rilevante dibattito nel mondo anglosassone, è entrata da qualche tempo nelle discussioni italiane in tv e sui giornali, pur con una certa confusione che contribuisce a frequenti incomprensioni. La “cancel culture” è stata citata da vari opinionisti per commentare la storia del “bacio non consensuale di Biancaneve”, o un monologo televisivo in cui i comici Pio e Amedeo hanno rivendicato la libertà di riferirsi alle persone nere o gay con termini ritenuti generalmente offensivi e discriminatori.
Per “cancel culture”, traducibile con “cultura della cancellazione”, negli Stati Uniti e in generale nel mondo anglosassone si intende oggi quel fenomeno per cui gruppi più o meno organizzati di persone esercitano pressioni su un datore di lavoro, committente, collaboratore o socio perché punisca o interrompa i rapporti con un dipendente o un partner professionale per via di certe cose che ha fatto, detto o scritto. Non è detto che queste pressioni vengano necessariamente esercitate sui social network, ma è molto spesso così.
In origine, nel gergo dei social, l’espressione “cancelled” indicava una presa di posizione prevalentemente personale riguardo a qualcuno che aveva detto o fatto qualcosa ritenuto disdicevole. Negli anni Dieci guadagnò popolarità e iniziò a introdurre nuove dinamiche nella responsabilizzazione dei personaggi famosi, e a dare visibilità a posizioni provenienti da gruppi di persone che prima avevano meno spazio nel dibattito.
Col tempo però “cancelled” assunse un significato diverso. Oggi viene usata principalmente in quei casi in cui decine, centinaia o migliaia di utenti scrivono a un’università, a un editore, a una casa di produzione cinematografica o a un’azienda, chiedendo che un professore venga allontanato, che il libro di uno scrittore non venga pubblicato, che un attore venga escluso da un film o che un dirigente venga licenziato per un determinato motivo.