Tutti conoscono Dante: molti lo studiano, altri lo citano, con cognizione di causa o no; alcuni cantanti hanno citato alcuni dei suoi versi più famosi. Ma quanti sanno che probabilmente Dante non ha mai dato un nome alla sua opera più famosa? E cosa significava il termine commedia per Dante?
Ritroviamo la testimonianza più importante del titolo dell’opera nell’Epistola XIII rivolta a Cangrande della Scala, dove Dante rilascia importanti dichiarazioni a riguardo, affermando che:
«Libri titulus est: “Incipit Comoedia Dantis Alagherii, Florentini natione, non moribus”.»
trad. Il titolo del libro è “Incomincia la Comedìa di Dante Degli Alighieri, fiorentino di nascita, non di costumi”.
Qui i punti interessanti sono due:
Nel medioevo la commedia non era solo un genere letterario o teatrale, ma indica uno stile medio, tra il sublime della tragedia e il basso dell’elegia per usare un lessico necessariamente tecnico.
Per comprendere meglio la posizione di Dante, dobbiamo tornare all’Epistola XIII.
Secondo Dante, la commedia è un testo poetico strutturato diversamente dalla tragedia. Quest’ultima, infatti, dopo un inizio tranquillo si avvia verso una conclusione luttuosa, mentre la struttura della commedia inizia con inizio difficile e oscuro per poi concludersi con il lieto fine.
Dopo aver esaminato le differenze strutturali, Dante esamina quelle lessicali:
tanto è alto e sublime il linguaggio della tragedia, tanto quello della Commedia è dimesso e umile. Non vuol dire trascurato, come vedremo più avanti.
Come chiude Dante il suo ragionamento per argomentare che la sua opera rientra a pieno titolo nella Commedia? Guardiamo le prove:
Per “colpa” e “merito” di Boccaccio, fan sfegatato del sommo poeta, che nel Trattatello in laude di Dante usa l’aggettivo “divino” in relazione all’argomento soprannaturale.
Eransi Iacopo e Piero, figliuoli di Dante, de’ quali ciascuno era dicitore in rima, per persuasioni d’alcuni loro amici, messi a volere, in quanto per loro si potesse, supplire la paterna opera, acciò che imperfetta non procedesse; quando a Iacopo, il quale in ciò era molto più che l’altro fervente, apparve una mirabile visione, la quale non solamente dalla stolta presunzione il tolse, ma gli mostrò dove fossero li tredici canti, li quali alla divina Comedia mancavano, e da loro non saputi trovare.
L’ultima sorpresa è che l’aggettivo “divino” usato dal Boccaccio non solo compare per la prima volta nel titolo nel 1555, ma nei secoli viene percepito come un omaggio alla qualità artistica di quella che è per tutti la Divina Commedia.