Paolo Petroni ISAAC BASHEVIS SINGER, ”ALLA CORTE DI MIO PADRE” (ADELPHI, pp. 328 – 20,00 euro – Traduzione di Silvia Pareschi) – Per chi ama il libri di Isaac Bashevis Singer, per chi è affascinato dal suo mondo e dalla sua abilità di narrare, come li amava, per citarne uno solo, Giorgio Manganelli che scriveva ”Posso leggerlo per ore… è affascinante in modo intollerabile” , ecco che torna in libreria, in una nuova traduzione, ”Alla corte di mio padre”.
Da queste pagine, legate alla sua infanzia, si capisce da dove nasca, quali siano le radici di tutto il suo raccontare, diviso tra la realtà della Polonia ebraica da inizio Novecento alla seconda guerra mondiale de ‘La famiglia Moskat’ e poi l’emigrazione dal 1935 in America di ‘Ombre sull’Hudson’, solo per fare due titoli esemplari di questo autore cui andò il Premio Nobel nel 1978.
Un’emigrazione vissuta senza mai dimenticare o rinnovarsi davvero rispetto al passato, a cominciare dalla lingua che resta l’yiddish. Singer, nato in una famiglia di rabbini ortodossi, se ne liberò seguendo le orme del fratello maggiore Israel Joshua, anche lui grande scrittore, fuggito dal seminario rabbinico e da casa per non essere arruolato ma anche per non trovarsi costretto a seguire le orme paterne. Il padre era infatti rabbino cassidico in un povero quartiere di Varsavia e al n. 10 di Via Krochmalna era assieme l’abitazione e corte rabbinica, il Bet Din, ”connubio tra tribunale, sinagoga, casa di studio e, se vogliamo, lettino dello psicanalista dove chi aveva l’animo turbato poteva venire a sfogarsi”, come scrive l’autore in una prefazione nata all’epoca della prima traduzione del 1970 per il lettore italiano. A quell’indirizzo si ricevevano i fedeli, gli abitanti dei dintorni, dando consigli e svolgendo una sorta di arbitrato sulle varie controversie che nascevano tra questi e, affidandosi a quel sant’uomo, sempre all’insegna della giustizia e del perdono. Assieme, a fianco e magari intrecciandosi si svolgeva la vita familiare dei Singer in cui centrale era il ruolo della madre, una mamma ebrea possessiva e ansiosa come da tradizione, impegnata a far quadrare il magrissimo bilancio casalingo oltre a conoscere molti dei visitatori coi loro problemi di matrimoni, tradimenti, divorzi, sempre in bilico tra vita e morte, tra bisogni del corpo e sensi di colpa dell’anima.
Esemplare in questo senso l’uomo dottissimo con ascendenze tedesche, che si avvertivano nel suo vestire e nell’accento Yiddish, il quale con la sua erudizione sosteneva di essersi guadagnato una grande porzione di vita eterna e era andato dal rabbino Singer per cercare di vendergliene una parte. Andava in giro ”manipolando le sue vittime: prima ispirava ammirazione, poi rabbia, ripugnanza e paura, e infine si faceva pagare per levarsi di torno”. E’ la volta che il santo padre si indigna: ”E’ un eretico… una miserabile canaglia”, strilla, dopo avergli dato un po’ di rubli per liberarsene, tra le proteste della moglie.
Tutte storie ascoltate dal futuro scrittore in piedi accanto alla sedia del padre o spiandole da dietro una porta o in un angolo non visto, così hanno la forza della scoperta, dell’incontro con la varietà, le miserie, i sogni, le delusioni, le sofferenze della più varia umanità da parte di un adolescente che, scrivendole anni, dopo vi rimette le emozioni, lo stupore di allora. E’ una realtà in continuo rapporto con Dio, tirato in ballo per qualsiasi, minima questione, e così pure accusato e oggetto di rabbia per le delusioni e le fatiche esistenziali, alla quale Singer guarda con anche un filo di humor, la coscienza che il mondo è più grande vario di quello dello studio di suo padre, e comprende anche i non ebrei, i gentili, e la lettura dei loro romanzi proibiti, profani ”sviluppando il gusto per l’eresia”.
Soprattutto quello di casa Singer è un piccolo universo che fa riferimento solo alle sacre scritture, ma in queste pagine trova un suo sfondo sociale e storico, a cominciare dalla tragedia dei pogrom nella Russia zarista, ma anche lo spirito ribelle dei giovani ebrei, e la guerra. Ecco le peregrinazioni del fratello e poi i racconti sulla fame e il freddo dopo l’occupazione tedesca di Varsavia e la gente che non ha più i soldi per pagare il rabbino, costretto a chiedere in prestito un anello per impegnarlo, mentre altri come Reb Joseph Mattes arrivano rabbiosi a fine settimana ”picchiando il pugno sul tavolo e gridando: uomini, non ho il pane per inaugurare lo Shabbat!”.