Nel 1987, quasi 35 anni fa, Gaetano Berruto ha parlato per la prima volta di italiano neostandard nel saggio Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo.
Con questa definizione-ombrello, il linguista intendeva riferirsi a delle tendenze considerate scorrette dalla grammatica, ma che si stavano ugualmente diffondendo da Nord a Sud per via dei mezzi di comunicazione di massa, della mescolanza tra parlate regionali e lingua nazionale e dell’incalzare della modernità.
Se è vero che è la grammatica a formare una lingua, è altrettanto vero che è chi si serve della lingua per comunicare a forgiarne le caratteristiche grammaticali, in un vero e proprio processo di evoluzione continua.
Non c’è da stupirsi se dal 1987 a oggi certe abitudini rientranti nel cosiddetto “italiano dell’uso medio” si stiano diffondendo in modo sempre più trasversale, finendo per costituire una parte integrante del nostro modo di esprimerci anche in contesti più formali (scritti o orali), senza che venga quasi più notato. Ecco alcuni esempi…
I pronomi soggetto di terza persona sono “egli/ella” al singolare e “essi/esse” al plurale. Nell’italiano neostandard, invece, la prima coppia viene sostituita da “lui/lei” e la seconda coppia da “loro“, che in teoria sarebbero tutti e tre dei pronomi personali complemento ma che, in pratica, sono ormai considerati delle varianti regolarmente ammesse.
“Durante le vacanze vorrei leggere romanzi gialli, rosa, piuttosto che d’avventura e quant’altro”. C’è un problema in questa frase? Tecnicamente sì, perché “piuttosto che” viene usato al posto di “oppure”, quando il suo significato sarebbe quello di “anziché“. In altre parole, in italiano neostandard lo usiamo per proporre possibili alternative di un elenco, anche se il suo valore originario è invece sostitutivo.
Nell’idea di una semplificazione dei tempi verbali, succede non di rado che si ricorra al presente indicativo per indicare un’azione che si compirà nel futuro, come nella frase “Fra qualche giorno vado in libreria” (che sostituisce la più idonea “Fra qualche giorno andrò in libreria”). Il motivo è presto detto: da una parte uno sforzo cognitivo minore, per l’appunto, e dall’altra parte una maggiore assertività, almeno nella percezione di chi parla.
Questo avverbio, se considerato in modo autonomo, non è sinonimo né di “sì” né di “no”; piuttosto, riconferma il livello di convinzione con cui si sceglie la parola che segue. Ecco il motivo per cui non andrebbe utilizzato da solo per rispondere a una domanda chiusa (come “Sei d’accordo?” o “Non ti va di venire?”), bensì accompagnato da un aggettivo (“è assolutamente vero”) o da un altro avverbio (“è assolutamente così”), anche se nell’uso medio accade quasi sempre il contrario.
Nei temi di italiano ci hanno sempre fatto presente che si trattava di un errore, ma le cose cambiano se parliamo di italiano dell’uso medio: va bene dire “a me mi piacciono le storie a lieto fine” o “a te quali classici ti sono rimasti più impressi?”, perché il raddoppiamento in questione serve a rafforzare volutamente l’enfasi sulla persona interessata dalla frase, per quanto la regola grammaticale continui a sconsigliarlo.
Al posto del congiuntivo, è ormai tendenza comune ricorrere all’indicativo per semplificare, oltre ai tempi verbali, anche l’uso dei modi. Di conseguenza, non è insolito imbattersi in frasi del tipo “Se prenotavi lunedì il libro ti sarebbe già arrivato“, che va a sostituire la proposizione “Se avessi prenotato” in un periodo ipotetico. Ancora una volta niente di errato fino in fondo, si tratta “solo” di una modalità più informale di esprimersi.
Oltre alla sua funzione di pronome relativo e di congiunzione, il “che” in italiano neostandard diventa una sorta di raccordo semplificato tra proposizioni, come nelle frasi “Leggerò questo libro domani che oggi non ci arrivo” o “Alessandro Manzoni è un autore che ci si può fidare“, la cui forma più corretta sarebbe “Leggerò questo libro domani perché oggi non ci arrivo” e “Alessandro Manzoni è un autore di cui ci si può fidare”.