Il romanzo breve “Confessioni sconvolgenti”
Pietro Racchi: una vicenda nera sotto il segno del Delitto di Feder
Acqui Terme. Pietro Racchi, musicista di lungo corso, ma anche pittore – ora pittoscultore – non è nuovo ad esplorare gli orizzonti creativi della letteratura, tanto attraverso la poesia, quanto per via della prosa. (Anche se, con ammirevole esercizio di modestia e umorismo, chiosa: “Non lo ero, e non lo sono nemmeno ora, uno vero scrittore. Quello che mi ha spinto a scrivere è stata la fantasia.
Siccome non ho trovato chi fosse in grado di scrivere le mie fantasie, sono stato obbligato a scrivermele da solo…”. Semplice…).
Con il suo ultimo romanzo dal titolo Confessioni sconvolgenti – Diario (Booksprint Edizioni, 132 pagine, fresco di stampa, 16,90 euro) esplora – con suo gran diletto – gli scenari del noir.
E con una narrazione ben congegnata, che privilegia l’azione e il “divenire delle cose”, e riduce al minimo la trama concettuale, riesce ad agganciare strettamente l’attenzione del lettore, confezionando una storia dell’altro ieri, che dal’8 maggio 2003 conduce al 26 luglio di quello stesso anno. In cui gli USA celebrano(?) la vittoriosa invasione dell’Iraq. E di una guerra non meno cruenta – privata e individuale… – narra l’opera.
“Uno sfortunato ragazzo e una forma di idiotismo, caratterizzata da deformazioni somatiche”, l’orfanotrofio e l’impiego da “categoria protetta” negli uffici di un Municipio, e la comparsa di un “donna angelo” (poi degradata, rea, e quindi da punire…) sono i primi ingredienti di una vicenda che presto vira sulla strada criminale. Trasformando il protagonista in un serial killer. Un giustiziere.
E viene da domandarsi se il Signor Caso non ci abbai messo ancora una volta lo zampino. Perché in questo 2021 dei tanti anniversari (da Dante al Napoleone del 5 maggio, dalla nascita del Partito Comunista d’Italia alle piccole “cose locali” che lasciano un segno forte: il centenario della nascita del maestro della fotografia Ando Gilardi, e quello della signora del teatro della nostra Valle, Ileana Ghione da Cortemilia, e quello dei fatti sanguinosi di Piazza Addolorata in cui muore, negli scontri tra socialisti e fascisti, Angela Casagrande) ecco che si dovrebbe pure festeggiare il bicentenario di Feder Dostoevskij (che per Pietro Racchi – combinazione… – è lo scrittore di riferimento: lui lo afferma apertamente ma, anche a prescindere dalle sue parole, lo avevamo subito capito arrivati ad un quarto del romanzo…).
E, allora, inevitabilmente ecco che l’ombra lunga di Raskol’nikov si proietta sulle pagine: con tanto di maturazione del “diritto al delitto” (con l’introduzione della serialità) e di un ritorno di uno speciale tipo di coscienza. Che si pone al di là del Bene e della sua negazione.
Per l’autore delle confessioni, autodiegetiche (“ecco, lettore, ti racconto cosa mi è successo…”) e sconvolgenti, per lui, che si percepisce come una sorta di “elephant man”, dimidiato nelle ambizioni e negli affetti, il riscatto. Una rivincita all’insegna della banalità del Male, che implica il risarcimento/illusione di una trasformazione in superuomo.
Il suo pensiero non è poi tanto diverso dal protagonista di Delitto e castigo: “se Napoleone non avesse deciso di mitragliare una folla inerme, nessuno si sarebbe accorto di lui”.
I rovelli dell’innominato protagonista sono dello stesso segno: “Esiste una frontiera tra il lecito e l’illecito? Tra l’odio e l’amore? Tra il Bene e il Male? Tra la vita e la morte?”.
Alla fine, pur post modernamente mescolando forme e stili e generi, la tragedia
della solitudine è quella che trionfa.
E al lettore/spettatore non resta che la consolazione della catarsi.
Giulio Sardi
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