Per gentile concessione di Bompiani anticipiamo un estratto dal nuovo capitolo, ‘La tazza di porcellana: Maria Bellonci’, di ‘Amatissime’, il memoir di Giulia Caminito sulle scrittrici che l’hanno formata, che torna in libreria il 24 settembre in una nuova edizione arricchita.
Ecco il brano: “Mi capitò l’occasione di un periodo alla Fondazione Bellonci di via Ruspoli a Roma, dovevo occuparmi dei contatti e dei progetti con le scuole. Conoscevo la Fondazione, come la maggior parte degli amanti della letteratura italiana, perché lì si erano riuniti i primi giurati del Premio Strega.
(Il premio letterario più grande, che quando lo vinci stappi il liquore giallo e lo alzi come un trofeo; alle tue spalle, intanto, il silenzio dei vasi e delle statue etruschi che ti ricorda quanto tu sia minuscola nella felicità d’una sera.) Quando ci entrai mi apparve subito per quello che era in realtà: una casa, un luogo di memorie e di vita. Rimasi ammutolita davanti alla collezione della biblioteca, mi innamorai del terrazzo assolato o degli stipi nella cucina, ogni mattina entravo in quel luogo e per me era come varcare la soglia di un universo mitico.
Le case degli scrittori e delle scrittrici hanno questo potere, sanno farti sentire intrusa e ben accolta allo stesso tempo, si presentano nelle loro piccolezze – i legni sfregiati, le ante impossibili da chiudere, i tappeti arricciati – e nelle loro enormità, nelle tracce di chi le ha abitate anche con la scrittura: taccuini, dediche sui frontespizi, collezioni di sillogi poetiche.
Casa Bellonci – ai tempi, prima del restauro – aveva in sé l’aspetto di un luogo antico e imperfetto ma anche la funzionalità di un ufficio dove fare la pausa pranzo e prendere un caffè appoggiate alla finestra. Questo stridere del mio presente e del passato altrui si mostrava soprattutto, ai miei occhi, quando aprivo la credenza all’ingresso della cucina e guardavo la tazza da tè bianca con su scritto un nome: Maria.
Di quella scrittrice sentivo addosso la potenza attraverso la porcellana, il manico stondato, le lettere nere. Mi prendeva così la tenerezza per quell’oggetto semplice e comune, che le era sopravvissuto a mo’ di reliquia ma anche di segno d’umanità.
Quando negli anni e per altre ragioni sono tornata in Fondazione Bellonci, sempre con gentilezza mi è stato permesso di rivedere la tazza, di farle un saluto.
A volte, ci pare che chi scrive sia una creatura magica, forastica, immutabile. Come pensare infatti a Elsa Morante mentre disegna i gatti sul suo quaderno, ad Alberto Moravia mentre si adagia nella vasca, a Pier Paolo Pasolini che calca il cappello di lana sulla testa? Sono azioni da persone queste, non da icone, non da santini. Eppure quello che mi pare d’aver imparato in casa Bellonci è stato prima di tutto la prossimità possibile e poi l’esercizio della curiosità quotidiana.
Ricordo come mi capitasse di frugare con lo sguardo ai dettagli, con quanto desiderio allungassi il collo per vedere le foto di Maria, tenute a chiave nei cassetti, a come mi facesse sorridere notare che lei – come me, come noi – le aveva modificate col pennino per sistemare i capelli, il tondo del viso, le sopracciglia e ne coglievo così l’eleganza ma anche l’insicurezza, la necessità di essere rappresentata secondo il suo criterio e nessun altro.
Mi sono trovata poi a occhieggiare i suoi scritti giovanili mai ripubblicati – che terrò gelosamente sempre per me come se tra noi ci fosse un segreto – e a vedere le cancellature, i ritocchi alle lettere, i quaderni di ipotesi e appunti. Ed è parso un privilegio e poi un torto, esserle stata così vicino, averla sbirciata.
Ma chi era questa donna che tutti conoscono perché ha fondato insieme al marito il più importante premio letterario italiano? E come si è trasformata la sua casa dall’essere un luogo di nascondiglio durante la guerra, un porto sicuro per gli esuli, alla sede dei tè domenicali dove tra amici e amiche si parlava di libri, si decideva il disgelo delle idee? Ci si è spesso riferiti a Bellonci come a una salottiera, una amante della mondanità e del potere che il premio le aveva dato, una cerimoniera, a volte distaccata, forse troppo austera.
Eppure, io non posso mai abbandonare l’idea della tazza e ricordarne la bianchezza, la semplicità del suo stare nella credenza ad aspettare di essere visitata. E quindi non posso neanche accontentarmi, e devo spingermi a cercare quella Maria: dei cocci, dei pennini e della scrittura”.
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